La Patria stuprata, seppure morta, dalla patria nemica: Patria Italia violentata da Patria Tedesca; contadini resistenti straziati dalla miseria della guerra; puttane, in strada, mangiate da fame di amore e di morte.
Col titolo “Patria Puttana”, all’Arena del Sole va in scena Enzo Moscato (autore di testi e regia) con la Compagnia Teatrale Enzo Moscato. Con lui sul palco Cristina Donadio e Giuseppe Affinito, nell’allestimento di Tata Barbalato.
Patria in latino stava a dire “terra dei padri”, un femminile sostantivato di patrius, paterno. Dalla stessa radice oggi ricaviamo il termine “patriarcato”.
Nell’immaginario comune di patria-patriarcato, “se è femmina è puttana, se è maschio è trafficante”. Ecco allora che la Patria Italia trafitta dalla guerra del 1942, nella patria-patriarcato dell’ambientazione napoletana si estende a comprendere ogni spazio dove la radice linguistica è viva nei luoghi, nella materia: il bordello, le strade, le dicerie della gente, il fucile in mano agli uomini e, persino, la morte.
Nel microcosmo del regista ogni cosa diventa un mondo governato da regole precise, una patria vera e propria Patria dove si è cittadini solo se si ha il potere di essere Uomini o Oppressori, clienti o soldati.
Nanà, di cui Moscato stesso prende la voce e le movenze, ricorda il Pin del “Sentiero di nidi di ragno”: 10 anni all’incirca, per le viuzze di Sanremo viene iniziato dalle brutture della guerra. Una puttana in casa, la sorella; i tedeschi in casa, clienti della sorella; canzonato per le relazioni sessuali della stessa, Pin entra nel mondo adulto rubando la pistola a un ufficiale: sfoggiandola all’Osteria, verrà finalmente riconosciuto “uno di loro”.
Nanà è iniziato invece dal parto di Luparella, proprio mentre tutte se ne sono uscite a spasso; cordone ombelicale che mai si taglierà, simulacro della vita, lo porterà in grembo fino alla morte, doppia, che Nanà rivendica proprio tramite il racconto della storia del tedesco che si macchia di necrofilia: la violenza dell’oppressore sull’oppresso avviene anche davanti alla più estrema delle situazioni.
Nell’universo artistico di Moscato le puttane sono centrali. Per il regista partenopeo la figura della prostituta vuole rimescolare le carte in tavola su ciò che comunemente viene concepito “il femminile”: la puttana sta in strada, è indecorosa, puzza; il cliente ha soldi e fame di sesso, trova sotterfugi per rifugiarsi in quell’antro avvilente. La puttana è donna, il cliente è uomo. Tutti sono servi di qualcun altro, la prostituta stessa è schiava libera di un padrone incatenato.
L’espressivismo linguistico fa cozzare insieme napoletano, tedesco, italiano dialettale, poesia, prosa. La drammaturgia stessa non è unitaria, poiché Moscato confessa di aver raccolto i testi tra frammenti scritti in 34 anni. La logica non è lineare, piuttosto ciò che si ricerca è l’assonanza, il ritmo, una percezione che si svincoli dalla razionale comprensione quotidiana.
“Alle puttane non fotte niente dei soldi, solo delle parole, meglio se sono forestiere”. Cristina Donadio si toglie la parrucca. “Nei camerini di chi fa questo mestiere ci sono sempre tulipani, irritabili come noi.” Sulle ultime frasi c’è la spenta apatia dei fiori, che riluce nelle parole di una prostituta sventrata in vita e in morte: “Io non sono nessuno, io non sono”.