C’è stata quella volta che Mina ha telefonato a Paletti, intonando una canzone al telefono. E quel’altra in cui, diventato papà, ha deciso di regalare un brano meraviglioso al figlio Enea. E poi c’è stata quella sera che Paletti, nome d’arte di Pietro Paletti, è stato ospite ad Artrock Museum.
Eravamo in una cinquantina nella splendida cornice di Palazzo Pepoli, che da buona istituzione bolognese accoglie eventi aperti ad un’utenza variegata. Intorno il museo, nella pancia della struttura, c’è lo spazio a forma di L dove si trovano, allo snodo, un piccolo palco, un pianoforte e una sedia. I tavolini del cafè sono disposti in maniera da lasciare a chi vuole il modo di spizzicare qualche cibaria mentre assiste allo spettacolo. Chi invece preferisce limitarsi ad ascoltare l’incontro può entrare al museo e prender posto nella piccola platea di sedie trasparenti. Il 7 marzo il direttore artistico, Piefrancesco Pacoda, ha presentato Paletti.
Inizialmente sulle sue, quasi smanioso di suonare, ha risposto alle tre domande di rito in maniera esaustiva, ma lo sguardo correva alla chitarra. Quasi come un bimbo che attende di aprire un regalo e si fa sbrigativo nel preambolo dell’evento. Poi però il regalo era per noi, ed erano le sue canzoni. Il cappellino calato sugli occhi, questo musicista bresciano dall’aspetto poco estroso lo ha messo all’inizio. Forse, e dopo un po’ lo si intuisce, perchè quelle canzoni che si sono sviluppate a seguire erano così intime che ci voleva un secondo, almeno uno, per potercele raccontare agevolmente. Dopotutto, dell’album Super lui stesso avanza qualche dubbio: “Sono temi così intimi che ad un certo punto mi sono chiesto se facevo bene a portarli in giro“. Ma la musica può tutto, e in questo caso rende possibile una condivisione bellissima fatta di chitarra acustica e voce, trasformata nel canto in un connubio più leggero e semplice rispetto all’album, già bellissimo. I primi quattro pezzi sciogliono il ghiaccio e più d’una bocca si muove sottovoce ad accompagnare le strofe.
Al secondo giro di domande l’atmosfera è ormai rilassata e la confidenza consolidata. È qui che Pietro Paletti diventa più eloquente e alle domande risponde con aneddoti e un inconfondibile accento lombardo. Le storie familiari del piccolo Enea o del papà al quale dedica una canzone molto emozionante si legano ad altre più divertenti. Come quella volta, appunto, in cui la stupefacente Mina lo chiama per fargli scrivere una canzone, mentre lui è a bere un’aperitivo in un paesino bresciano dopo un funerale. E se la ride da solo, e con noi. Le quattro canzoni pattuite per chiudere l’incontro ben presto si moltiplicano nell’atmosfera amichevole di ArtRock Museum, passando anche da richieste del pubblico e da un’ospite a sorpresa. Paletti, prima della carriera solista, ha suonato con un gruppo. Il suo compagno di avventure musicali si trova su una delle sedie trasparenti di Palazzo Pepoli, ed ecco che scatta il momento revival: un pezzo in inglese, bellissimo.
Anche questa volta ArtRock Museum non ha deluso le aspettative, e come per magia ci ha lasciato con un regalo in più: avere scoperto chi è il cantante ossessionato dagli incubi sulla ragazza dai capelli blu. Piccolo ma divertente elemento della serata: una delle fotografe aveva davvero i capelli blu!