Di Angera Curina
Poca costruzione registica, molta presenza di Delbono, soprattutto come voce sussurrata al microfono, o come corpo che si aggira nel teatro tutto, sul palco o in platea. Così “La Gioia”, andata in scena dal 1 al 4 marzo all’Arena del Sole di Bologna, porta in scena la delicatezza di una morte col sorriso: uomini che per curare i pazzi suonano il tamburo, in India, diventano a loro volta pazzi; donne mondane che cantano “Maledetta primavera” dipinte di blu; punti neri nel racconto della messa in opera e nel cammino luminoso della gioia.
Due grandi incontri hanno scritto per Pippo lo spettacolo: quello con alcune donne filippine che vivevano in una discarica e quello con dei bambini di Varanasi. Delbono ci avverte del rischio di abiura della morte, quello che, ormai da anni, percorre la nostra società. Un immaginario comune per cui gioia e morte sono agli antipodi, così come le nostre tendine ai vetri sono in aperto contrasto con i fiumi d’acqua sporca in cui muoiono odiernamente i paria indiani. Un fiume che, Delbono insegna, “mormora un canto pieno di felicità, che sale, sale, sale verso la luce”.
Pippo parla di uomini, vicini e lontani, che “sentono solo il loro dolore, che è frutto di qualcuno che ha tutto”: così noi, privilegiati spettatori di platea, ci esaminiamo sulle nostre pretese e priorità. Un trafficante di gioia, o di uomini, in scena, la giacca sportiva e lo zainetto tipici di chi diviene funzione, e si limita ad azioni ripetitive e non partecipate. Funzione, finzione, di se stesso e dell’efficienza, deficienza.
Delbono sembra protagonista assoluto ma non lo è, perché la sua presenza rimane come quella della penna che scrive, silente ma che traccia un segno.
I fiori ricoprono tutto lo spettacolo, perché il regista ligure vuole riprendere il loro carattere primo: la bellezza dell’effimero, la gioia piena di essere, nonostante la brevità. “Qualunque fiore tu sia, quando verrà il tuo tempo, sboccerai: non esiste fiore migliore di quello che si apre nella pienezza di ciò che è”. Una tomba di fiori bianchi su una distesa di foglie, è la terra di un cimitero: la fine.