Sponz2017, un festival al contrario nell’Irpinia (non più) dimenticata

Di Andrea Zangari

All’incontrario. Un festival riavvolto, dalla fine al suo inizio, questo Sponz17, occasione per celebrare il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Un’eco apparentemente lontana nell’agreste e suggestivo panorama dell’Alta Irpinia, ma per chi conosce lo Sponz, giunto alla sua quinta edizione, e la sua scena calitrana, tutto è subito naturale.

Un front-office alle porte del borgo accoglie gli sponzati, costruito a mo’ della tribuna di Lenin che l’architetto costruttivista El Lissitzky progettò nel 1924. Una forma protesa, arborea e piramidale, ancestralmente sacra come l’atmosfera delle grotte nel borgo, aperte dal tramonto all’alba ad ospitare poesia, musica, vino, ancora poesia e nipoti di briganti, vecchi comunisti e comunisti vecchi, e giovani comunisti, e molti disillusi e confusi. A condividere l’ombra odorosa di salumi essiccati nel tufo, l’aspro pungente del rosso locale, duro come la terra tutt’intorno il borgo. Le vie del paese le percorriamo sempre a salire, come i contadini di ritorno dal lavoro per millenni, che tracciarono nella boscaglia il sentiero della Cupa, via privilegiata per risparmiare tempo e guadagnare frescura, ma anche via sacra, perché il bosco è la casa dell’Ombra e dell’Ignoto. Ascoltare l’ultimo album di Vinicio, Canzoni della Cupa, per capire.
Sempre più il festival intesse trame nel territorio, con eventi trasognanti nei boschi, nei campi, tra Rocchetta e Conza della Campania, altri borghi devastati dal sisma del 1980, con biciclettate e trekking fra laghi e abbazie scoperchiate. E sopratutto con il treno: un convoglio storico attraversa la linea Avellino-Rocchetta, che ha trovato attenzione e finanziamenti governativi proprio grazie alle scorse edizioni del festival. Il treno giunse molto presto in quest’area, ben prima che nel nord-Italia, al traino della prodigiosa genìa ferroviaria partenopea. Ma altrettanto presto giunse in disuso, e fintanto che funzionò fu soprattutto una possibilità di fuga. Un treno dell’addio, ritornato. Come vorremmo dell’amore.
Molti i fili rossi, rossi come il colore delle bandiere issate sul forte (una castelleto-corona in rovina del costruito, azione bellicosa restituita da cocente ed ironica destrutturazione alla Natura del paesaggio, cui s’offre come punto di osservazione panoramico), rossi come il vino, come il cuore dei fichi dolcissimi che crescono qua e là: “focolai di insurrezione spontanea” è il tema dei micro-eventi sparsi nello spazio, mentre la “libera università per ripetenti” deistituzionalizza e schernisce ogni cultura che non sappia capovolgersi, riflettere-sul e riflettersi-nel suo contrario: che ne è il limite, la fine, l’implicito riconoscimento che se tutto è relativo allora di-vertiamoci, sovvertiamoci.  Altro non si conviene. La realtà è un gioco tremendamente serio, da celebrare con danze, con una gloriosa quadriglia dalle centinaia di ballerini che sponzati si abbracciano e saltellano, o parate come il concertone finale, nella polvere del campo da calcio a valle del borgo che si alza sotto i colpi di piedi sempre danzanti.

Le notti dello Sponz si danno come giorni della creazione, perché a ritroso prima della luce c’era il buio, e da questo viene quella, e solo se sai starci poi puoi svegliarti. Molti infatti gli eventi all’alba, tempo liminale che segna il passaggio e dunque ritualizza appunto la creazione: spettacoli e letture, poi domenica mattina il violoncello di Mario Brunello congeda le tenebre sul tetto del borgo, seguito da un ringraziamento al sole nascente sulle note di Alleluja e Song to the Siren. Infine, l’inizio. La presentazione del festival ne chiude lo scorrere cronologico. Ci ritorneremo.