di Luca Giudici
Sognando di essere a Londra, sul finire degli anni ‘60, quando tutto nasceva da lì e gruppi che avrebbero fatto la storia sfornavano pezzi che sarebbero diventati pietre miliari del rock a ripetizione, come un fornaio sforna panini e brioches nel cuore della notte.
Sognando di rivivere quelle magiche atmosfere, quando il rock era davvero uno stile di vita, forse un po’ troppo estremo, e quando la sperimentazione era all’ordine del giorno. Sognando, ma ad occhi ben aperti, ci siamo diretti a Spielberg, in Austria, più precisamente al Red Bull Ring, il circuito automobilistico che per una notte si è trasformato in una grande arena, in cui il rumore dei motori è stato sostituito dai decibel del rock e dal suono delle “Pietre Rotolanti”.
Lo scenario non è dei più poetici; sicuramente le mura lucchesi sarebbero state una cornice ben più affascinante per un concerto tanto epico. Ma tant’è, un po’ per ribellione nei confronti del sistema italiano di vendita dei ticket, un po’ per la volontà di assaporare nuovi scorci e visitare nuove città, la decisione è caduta su questa lingua di asfalto sperduta tra i boschi e i pascoli della Stiria. Dopo una notte trascorsa tra un pittoresco locale hard rock e un concerto in stile irish nella fredda Klagenfurt, di buonora ci dirigiamo verso nord per entrare il prima possibile in clima concerto. Ma il clima, quello atmosferico, non ci assiste e al nostro arrivo un’incessante pioggia gelida fa da cornice ad una situazione già complicata, e parecchio; uno di noi è ostacolato da un’ingessatura che lo obbliga ad assistere al concerto dalla carrozzina, in un’area dedicata ai disabili (con ripercussioni sulla visuale, molto più scarsa dei posti prato che ci eravamo accaparrati).
Arrivare in postazione con una marea di gente ed un’area concerti ridotta ad un’immensa palude, si è rivelata un’impresa titanica. Ma, un’ora e mezza prima dell’inizio dello spettacolo, siamo al nostro posto, con birre alla mano e il sole che fa capolino fra le nubi che si stanno diradando.
Alle 17.00 apre le danze John Lee Hooker Jr., figlio del celebre bluesman famoso per il brano One Bourbon, One Scotch, One Beer, che con la sua “voce nera” e l’accompagnamento di una sola chitarra acustica, delizia il pubblico con cover in stile soul e gospel, cercando un’interazione costante con un pubblico che risponde con buona partecipazione. Alle 19.00 circa tocca ai Kaleo, una band islandese che stupisce ed incanta il pubblico grazie ad mix fra blues e garage rock, reso unico dalla calda e potentissima voce del cantante Jokull Juliusson. Questi ragazzi provenienti dalla “terra del ghiaccio”, riescono a scaldare il pubblico infreddolito dalla pioggia, che nel frattempo ha riempito all’inverosimile l’arena austriaca. Segnatevi il nome di questa band e, se vi capita l’occasione, non perdetevi una loro performance live!
Entusiasti per un’ora abbondante di ottimo sound, aspettiamo impazienti (io nel prato a pochi passi dalle transenne e i miei compagni d’avventura dalla tribuna) l’uscita di Jagger e compagni, che avviene alle 20.40, solo 10 minuti dopo l’orario ufficialmente previsto. Tra fuochi d’artificio e coreografie diaboliche, si inizia subito col botto con una versione grezza e cattiva al punto giusto di Sympathy for the Devil, e il pubblico è già in visibilio. Giusto il tempo di salutare i fan e si prosegue con la celeberrima It’s Only Rock’n’Roll (but i like it), che anche al pubblico piace, eccome. Poi è la volta di Tumbling Dice, prima di lasciare spazio a due brani tratti dall’ultimo lavoro degli Stones Blue & Lonesome, in cui la band riscopre le proprie origini blues con una serie di cover magnifiche nella loro cruda nudità. Da questo meraviglioso album, Jagger e compagni ci propongono Just your Fool e Ride ‘em on Down facendo muovere i culi dei settantamila presenti. Jagger è carico, salta sul palco con la freschezza e l’agilità di un ventenne e trascina con sé Keith Richards e Ronnie Wood, che sembrano divertirsi non poco nel suonare e nel prendere in giro sé stessi. Più composto il buon vecchio Charlie Watts, l’unico a dimostrare davvero tutti gli anni che ha. Dopo l’energica Under my Thumb, spazio al vote song, la canzone scelta dal pubblico tra quattro proposte dalla band, che per la tappa di Spielberg è risultata essere l’onirica She’s a Rainbow; una canzone che ho sempre adorato e che ha incantato con il suo ritmo spezzettato in cui il suono della tastiera sembra prendersi gioco del concetto stesso di musicalità, per un brano ai limiti della follia.
Giusto il tempo di tornare sulla terra e i Rolling Stones tornano a farti viaggiare con la fantasia con la struggente You Can’t Always Give What You Want, tratta dall’album capolavoro del ‘69 Let It Bleed. Finalmente scorgo tra la folla l’omino delle birre che grazie al suo fucile alla Ghostbuster riempie bicchieri griffati No Filter, che rimarranno come ricordo indelebile di questa mitica esperienza. Rinfrescata l’ugola, tutti pronti ad urlare al vento Paint it Black, con un Mick Jagger che sul palco non si trattiene più e corre a destra e a sinistra aizzando la folla come un indemoniato. Dopo Miss You, il buon Jagger presenta i membri storici della band e i fantastici musicisti che li accompagnano in questo tour, prima di farsi da parte per lasciare tutta la scena al mitico Keith Richards che si esibisce nel doppio ruolo di chitarrista e cantante per la frizzante Happy, e per la ballad Slipping Away, sdrammatizzata dall’esuberante Keith con boccacce da bimbo dispettoso. Con il ritorno di Jagger sul palco, si torna immediatamente a sonorità tipicamente blues con Midnight Rambler, in cui il frontman alterna voce e armonica a bocca, e con Honky Tonk Women, sempre coinvolgente nei loro live. Dopo Street Fighting Man, un tripudio di luci annuncia l’incipit di Start me up, che apre la fase più calda del concerto per un trittico da paura con Brown Sugar e (I can’t get no) Satisfaction, brano che fa saltare ed urlare anche i più tranquilli tra i fan.
Gli Stones a questo punto fingono un breve saluto, ma anche il più estemporaneo dei rocker sa benissimo che il bis è dietro l’angolo; infatti, senza nemmeno lasciare il tempo di guardarsi intorno, ecco che Jagger e soci tornano di corsa sul palco per una versione capolavoro di Gimme Shelter, in cui Mick e la fantastica corista duettano come due amanti insaziabili sulla pedana che dal palco entra nel cuore del pubblico. Il concerto si conclude, dopo due ore e mezza di puro rock incessante, con la splendida Jumpin’ Jack Flash, lasciando spazio ad un breve spettacolo pirotecnico, mentre gli Stones si inchinano davanti al loro sempre appassionatissimo pubblico.
Ora però viene il difficile, almeno per noi; dopo aver recuperato i miei due compagni d’avventura, la marcia verso l’uscita si è rivelata una vera e propria via crucis; nessuna via d’uscita preferenziale nemmeno per chi, a differenza del nostro irreprensibile Popo che a breve toglierà il gesso, soffre di gravi patologie e voleva assistere, come tutti, a questo grande spettacolo. Della piccola passerella di plastica che avrebbe dovuto facilitare l’esodo con le carrozzine, ormai non vi era più traccia e non restava che avanzare in un mare di fango, tra l’indifferenza generale. Qui un grazie è d’obbligo a due ragazzi vicentini che si sono immolati nell’aiutare i tanti disabili presenti, cercando invano di attirare l’attenzione degli organizzatori su una problematica che stava diventando ingestibile. Ma questo intoppo finale non ha smorzato affatto l’entusiasmo per un evento epocale, per un concerto che ha superato di gran lunga le nostre aspettative, non altissime per l’età avanzata di quei ragazzacci inglesi che hanno dimostrato, una volta di più, che un’anima puramente rock vince anche lo scorrere del tempo.
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