Quella volta che Lo Stato Sociale ha mandato via il mio ex

Nell’estate del 2015 mi sono ritrovata in una spiacevole e allo stesso tempo comunissima condizione. Dopo anni una relazione finisce e ci si ritrova a doversi rimettere in sesto a suon di amici, birrette e lunghe lunghe sedute di confessioni alle quali, i suddetti veri amici, si sottopongono con compassione. 

Questo mio momento di sventura combaciò, per un fortuito caso, con la stessa sfiga piombata in testa ad un caro amico veneziano. Entrambi con l’ombra di grossi ex intellettualoidi alle spalle ci siamo dati una mano vivendo per un estate di birra, wurstel e musica in un bellissimo appartamento veneziano.

Di quel periodo, che ad oggi ricordo quasi con commozione, rimane costante nei miei ricordi una canzone che si rivelò liberatoria: L’amore ai tempi dell’ikea, celebre pezzo de Lo Stato Sociale. Fino a quel momento, pur essendo abbastanza simpatizzante per la musica indie che ancora aveva dei confini pressocchè rintracciabili (a differenza di oggi), non avevo mai prestato attenzione a questo gruppo bolognese. Scrollatami di dosso la compagnia intellettuale-alternativa che mi aveva accompagnata negli ultimi anni, mi sentivo però libera di immergermi in quella musica che poteva essere considerata “di bassa lega” o “poco di spessore”. Canticchiando le parole scomposte della canzone, inno del menefreghismo sentimentale, tanto io quanto il mio compagno di sventure uscimmo dal “tunnel dell’ex“.

Pochi giorni fa mi sono ritrovata, in compagnia della mia nuova e musicalmente meno schizzinosa metà, alla Festa di Radio Onda d’Urto. Sul palco, a sovrastare una folla urlante di fans che avevano da poco superato la maturità, c’era proprio Lo Stato Sociale. Quasi con affetto e molta voglia di ringraziarli per il passato supporto li ho ascoltati, mentre come una bolla si formava in me una domanda: “Ma perchè sono diventati famosi questi qua?“. Ammettiamolo, i regaz di bolo non hanno eccessive velleità artistiche: sanno suonare bene, ma non spiccano per complessità ed elaborazione degli arrangiamenti. Lodo, che saltella sul palco accompagnato dal microfono, in realtà non canta. Magari, e questo non ci è dato saperlo, ha enormi capacità canore che però a noi, per ora, restano sconosciute a favore di un canto parlato che scivola a volte nell’urlo. Devo ammettere che in più di un’occasione mi sono chiesta che cosa ne sarà delle sue povere corde vocali. Escludendo la questione puramente esecutiva ho pensato allora che la chiave fosse nei testi. Scorrendo la biografia dello Stato Sociale ci sono: due ep, tre album, un dvd (del quale continuo ad ignorare il contenuto, ma spero di scoprirlo), un numero imprecisato di collaborazioni, un libro (!). Insomma di cose da dire ‘sti cinque ragazzi ne hanno. Ora, oltre al mio medicinale l’amore ai tempi dell’ikea, scandagliando i testi posso con certezza enumerare una serie di argomenti di varia natura: le ragazze/i ragazzi che vogliono uscire con te, ma “niente di serio”, le ragazze finto politicizzate che poi ti parlano dell’ex, prese di coscienza sull’attuale situazione sociale-politica interpretate con un’ampio spettro di stati d’animo, ritratti del mondo musicale indie e della relativa fauna. Insomma, i temi importanti che attanagliano l’animo di ogni italiano medio, con un’età media, dei problemi medi. Partendo dai primi ep, Welfare Pop e Amore ai Tempi dell’ikea, si può già intuire l’identità presa da un terzetto Albi, Lodo e Bebo, poi allargato a cinque supereroi. Quindi facendo il punto i temi, in un modo o nell’altro, attecchiscono su chiunque: impossibile non avere problemi di donne, lavoro, politica, diffidenza verso la società. Pescando nel grande calderone della precarietà e insoddisfazione dei neotrentenni ci sono due vantaggi: da un lato avere del gran materiale di cui raccontare e lamentarsi, e dall’altro lato cantare esattamente dei propri problemi. Eh si, perché lo Stato Sociale sono trentenni e forse quei problemi di cui cantano non sono solo i nostri, ma anche i loro. Quando la canzone post rottura aveva tanto attecchito sulle mie orecchie e nel continuo canticchiare del mio amico è perchè forse con noi, a lamentarsi, potevano esserci anche Lodo o Bebo.

Cantare “Mi sono rotto il cazzo delle signorine/Che vogliono fare un sacco di cose/Ma non ne sono in grado e se ne accorgono tardi“, possibilmente senza impegnare troppo le corde vocali, o al più urlando, è urlare di qualcosa che ci ha rotto il cazzo. Anche a noi. E allora meglio che non siano nemmeno così bravi, che non siano i Rolling Stones dei “bella vez”; gli Stato Sociale, a quelli che hanno trentanni, forse piacciono perché sono vicini. Perché sono cinque staccati dalle fila dei post adolescenti sfiduciati e alle prese con i problemi da: “Hai 30 anni, sei un uomo”/ “Hai 30 anni, sei un ragazzino”. Ci piacciono perchè con le canzoni orecchiabili con lunghi, incalzanti, “oooooooh, eeeeeeh” ci incitano a buttare fuori le solite beghe, che ne avremo pur parlato mille volte, ma questi problemi sono ancora con noi al bar mentre beviamo una birra. E magari, se li cantiamo, si esorcizzano un po’.

L’unico scivolone, ancora tutto da interpretare, è questo tenere un piede nel mondo de “il sistema fa schifo” poi però infilarsi le sneakers per andare a scrivere un libro, da vendere a 17 euro con copertina rigida. E gli lp, che a 25 euro poi li comprano quelli “che ho iniziato dallo scratch e alla fine ho rotto tutti i vinili di papà“. In fondo però, per questi regaz partiti dallo scantinato simil-punk-underground bolognese del Panenka e zompettati in cima alle classifiche grazie al trampolino di Garrincha, si tratta di fare compromessi. Allora diventa una questione tutta personale quella di perdonarli o meno per essersi fatti abbagliare dallo scintillio del jet set finto trasandato, quello dove “devo comunque fare una smorfia quando mi fotografano/Se non faccio una smorfia faccio la smorfia che non mi accorgo che mi stai fotografando“.

(Foto di repertorio de Lo Stato Sociale quando erano ancora dei cuccioli di Indie)