Il giorno dopo arrivano messaggi su WhatsApp: “Com’era il concerto delle Pussy Riot?“. Ecco, per rispondere ci prendiamo il nostro tempo. Venerdì 15 febbraio siamo stati all’Estragon di Bologna per una serata dove sul palco sono salite le Pussy Riot, anticipate da altri due concerti: Popkillers e Mumble Rumble. Nel complesso però, la serata non è descrivibile come un concerto: le Pussy Riot ci hanno regalato una performance punk. Ultima tappa del tour del collettivo russo, c’è attesa.
Partiamo da principio: il collettivo punk-femminista russo Pussy Riot nasce a Mosca nel 2011. L’idea è di dare vita a performance di guerrilla, azioni politiche e artistiche dai connotati punk, anche se la musica in questo caso c’entra poco, o meglio arriva dopo.
Nel 2012 diventano un simbolo internazionale di lotta al potere dopo l’incursione e il concerto non autorizzato all’interno di una chiesa ortodossa in cui il collettivo si abbatteva contro la corruzione della chiesa e il suo asservimento a Putin che anche nella performance all’Estragon è stato oggetto di scherno da parte della band.
Principale protagonista della serata del 15 febbraio è Marija Alëchina. Marija ha scritto un libro intitolato “Riot Days”, in vendita anche all’Estragon, in cui racconta la preparazione e l’evento del 2012 che costò a lei e a Nadya Tolokno mesi di arresto. Il libro in cui è raccolta la sua testimonianza è il core del “concerto”: in un’ora e mezza sul palco si susseguono video, frasi e azioni che raccontano attraverso cupi e aggressivi reading quei mesi di prigionia, il trattamento subito in carcere e gli aspetti politici di tutta la vicenda. Tutto, diviso ordinatamente in punti, quasi fosse una presentazione ordinata, ma pericolosamente rabbiosa, un’esposizione lucida di anni di terrore, soprusi, ingiustizia. Impossibile non seguire il crescendo di sentimenti che partono dalla pancia e fanno alzare i pugni.
Sul palco, oltre a Marija, una ragazza alle basi e alla drum machine, un ragazzo alla tromba e alle percussioni e un altro, imponente e semi-nudo alla voce e all’acqua. Si, all’acqua, che in un punto del reading viene lanciata sul pubblico, come spinta a svegliarsi, ma forse anche come beffa alle benedizioni di quella chiesa bigotta che ha un ruolo importante nella vicenda di Marija e Nadya.
Lo spettacolo è un reading urlato, tutto in russo, mentre sullo sfondo scorre la traduzione in italiano sopra immagini che spaziano da attacchi a Putin, alla Chiesa, alla Russia, all’occidente e al sistema carcerario che il collettivo ha conosciuto. Passano anche immagini di prigionieri politici russi tuttora tenuti in carcere e tante altre suggestive immagini. Sul palco il ritmo è forsennato, ci sono solo piccole e brevi interruzioni tra un pezzo e un altro. La performance prevede che tutto ciò che avviene sia legato al racconto che viene fatto, dai balli scoordinati all’emulazione di una masturbazione fino al lancio di acqua sul pubblico, metafora ulteriore dei maltrattamenti subiti in carcere.
“La libertà non esiste, se non combattiamo ogni giorno”. Così la performance delle Pussy Riot non è solo un racconto al passato, ma anche un grido di rabbia che invoca alla protesta contro le ingiustizie, contro i diritti calpestati in tutto il mondo. E’ un invito a “non aver paura, a creare le tue regole”.