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Libertines all’Alcatraz di Milano: non si esce vivə dall’Indie Rock dei primi 2000

I Libertines tornano in Italia per celebrare i vent’anni dell’album Up the bracket in una serata per veri nostalgici all’Alcaltraz di Milano.

Nel 2002 dalla perfida Albione arriva un disco che detterà legge per le generazioni a venire: è Up the bracket, l’esordio di una coppia di nemici-amici ai livelli di Red e Toby. Sono due squatter senza un pound in tasca ma con un’attitude pronta a cambiare l’intero panorama musicale: Pete Doherty, prossimo sogno erotico di molte, e Carl Barât, destinato per certi versi a un futuro nell’ombra del suo compare.

Al netto della figura leggendaria di Pete e della celebre bromance burrascosa con Carl, Up the bracket viene posizionato dal New Musical Express – NME al secondo posto dei cento migliori album del decennio. I Libertines ci raccontano la malinconia di giorni di droga, sesso & rock’n’roll ma non solo: rappresentano, infatti, a pieno titolo i bei tempi andati, quando per Indie si intendeva l’Indie Rock e non l’Indie italiano di Calcutta & co (che comunque ammetto di ascoltare anche io).

Siamo all’Alcatraz di Milano, che la sera prima ha scaldato gli amanti dell’elettronica con i Moderat e i loro visual incredibili. L’Alcatraz dell’11 Novembre è una venue pronta ad accogliere un plotone in skinny jeans che si aspettano solo un party like it’s early 2000 guidati dalla formazione originale della band, con John Hassall al basso e Gary Powell alla batteria. Il piano è semplice: Up the bracket verrà celebrato e ripercorso in ogni sua traccia, per poi dedicare un momento da sogno agli altri pezzoni del gruppo.

video by giudi_giu

Si parte pertanto con la scaletta, brani tiratissimi e senza un secondo di respiro: la tagliente Vertigo, il ritmo di Death on the Stairs e la batteria nervosa di Horrorshow. Si passa quindi a 3 cm di pelle d’oca per Time for Heroes, preludio di quello che sarà il mood della chiusura del concerto, ai riff di Boys in the Band e al romanticismo della ballad Radio America. E ancora, i salti su Up the Bracket, la calma sognante di Tell the King e i coretti di The Boy Looked at Johnny, per poi, passando dal pogo di Begging, atterrare sui testi strappacuore di The Good Old Days e i diti medi alzati al cielo per I Get Along.

Dato che a mio avviso la loro vera punta di diamante è il disco The Libertines del 2004, bramo un concerto per il suo ventennale fra due anni, ma per ora accontentiamoci dell’encore dedicato a brani di altri album, tutti pronti a saltare e piangere di nostalgia. Ecco allora che, dopo una mini festa di compleanno per Gary Powell, ripartono tirati come pochi con Mayday, l’attacco inconfondibile di Gunga Din, la sommessa disperazione affrontata con approccio 100% british di You’re My Waterloo, gli immancabili brividi allo shoop shoop, shoop de-lang-a-lang di What Katie Did, la vibe giovane e apparentemente spensierata di The Delaney.

E via con le lacrime vere di Music When the Lights Go Out, a cui segue la rappresentazione esatta del rapporto tra Pete e Carl, ovvero What Became of the Likely Lads, e il dualismo di testo preso male e ritmo travolgente di Can’t Stand Me Now. La serata si conclude infine con Don’t Look Back Into the Sun, il cui “yeah” iniziale viene urlato da tutto il pubblico, che non aspettava altro, ma non dalla band. Che sia emblematico del fatto che ormai ci siamo rimasti sotto più noi di loro, a questo passato? Chissà.

Pete e Carl sono affiatatissimi. A vederli di nuovo assieme ci si sente un po’ come quando scopri che quei due amici del tuo gruppo, che si scontrano sempre su tutto, hanno finalmente fatto pace dopo una brutta litigata e mesi di silenzi ostili. Pete, soprattutto in chiusura di serata, inciampa nelle parole e urla volgarità in italiano, ma noi siamo pronti a perdonargli tutto. Del resto, non solo si è presentato al concerto e visti i trascorsi non era scontato, ma prima è riuscito nell’impresa di riunire la band (altro aspetto da non sottovalutare) e soprattutto è arrivato vivo ad oggi, nonostante non sia più il sex symbol di una volta e abbia ormai sostituito le droghe con l’endorfina da Camembert.

Cosa ci ricorderemo di questo concerto? La sensazione di festa universitaria in cui siamo stati catapultati in un secondo, questo salto nel tempo alla Golden Age a cui torneremmo domani e la dolorosa accettazione, per molti di noi, dell’avere ormai più di 30 anni. E che, sorry not sorry, niente può battere un paio di skinny jeans, nemmeno nel 2022.

 

di Rebecca Ricci